Mercoledì mattina, in terza commissione consiliare permanente, si è discusso della decisione della Regione di riavviare il COVA. L’assessore Pietrantuono ha illustrato sinteticamente quanto riportato nella delibera n. 733 del 17 luglio scorso, affermando che, a seguito delle ispezioni effettuate a più riprese, con il supporto di ISPRA, si è ritenuto di procedere alla riapertura dell’impianto, in quanto l’ENI avrebbe ottemperato a tutte le prescrizioni contenute nella delibera 322 del 15 aprile 2017 (quella che disponeva la sospensione delle attività per novanta giorni).

L’impianto ripartirà ma potrà utilizzare solo i due serbatoi dotati di doppio fondo (C e D), mentre dovrà comunicare la messa in esercizio degli altri due (una volta che saranno anch’essi muniti di doppio fondo) quindici giorni prima che ciò avvenga. Dal dibattito che si è sviluppato è emerso che la quantità di petrolio sversato recuperato (c.d. “surnatante”) si aggira intorno alle 290 tonnellate e che le acque emunte dal sistema di contenimento della contaminazione vengono inviate, mediante autobotti, presso una decina di impianti autorizzati al trattamento delle stesse acque (classificate come rifiuto speciale).

Su mia esplicita domanda, Pietrantuono non ha saputo confermate se tra tali impianti figuri anche Tecnoparco. E’ stato, tuttavia, escluso l’utilizzo di un impianto mobile per il trattamento delle acque emunte (l’impianto SIMAM di cui si è di frequente parlato nei giorni scorsi): la motivazione sarebbe la non conformità dell’impianto rispetto alle programmate attività di messa in sicurezza di emergenza (MISE) del COVA. Notizia curiosa emersa nel corso della discussione è quella secondo cui l’Eni ha sempre operato utilizzando, nel ciclo produttivo, due soli serbatoi di stoccaggio: tanto ha affermato la d.ssa Santoro dell’ufficio compatibilità ambientale della Regione Basilicata. Al che ho chiesto che si potesse conoscere quali dei quattro serbatoi sarebbero stati utilizzati in passato, anche perché risulta abbastanza incomprensibile che in un primo momento si sia addebitata la perdita al serbatoio A, poi al D, mentre il C (dotato già da un po’ di tempo del doppio fondo), per logica, avrebbe senz’altro dovuto essere uno dei due utilizzati, insieme al B che non sembra aver mostrato problemi di sorta (anche se dal testo della prima diffida anch’esso non pareva brillare per integrità).

Su questo punto non hanno saputo rispondermi, al che ho chiesto che si riuscisse ad ottenere tali informazioni, dato che di confusione in merito se n’è registrata fin troppa. Viene, inoltre, da chiedersi come mai esistano quattro serbatoi di stoccaggio, se per produrre a regime (84000 barili/giorno) ne bastano due. Altra domanda che ho posto è stata quella relativa al piezometro SEST11 (terza barriera, denominata Danella), la cui collocazione, come si evince da quanto riportato in uno dei documenti del carteggio tra Eni ed enti istituzionali, è stata deliberatamente modificata (nello specifico la sua profondità è stata portata a 15 m) in quanto questa operazione avrebbe consentito un recupero più efficiente del surnatante che, in quel punto, avrebbe addirittura superato i 50 cm di spessore! Nello specifico mi interessava sapere se tale operazione fosse stata o meno concordata con l’ARPAB.

Uno dei tecnici ARPAB mi ha risposto dicendo che la normativa obbliga il soggetto che gestisce la attività di MISE a mettere in campo tutte le soluzioni per contenere il più possibile la propagazione della contaminazione. Ad ogni modo credo che sia necessario approfondire la questione, dato che a seguito a tale accorgimento, lo spessore registrato è di colpo passato a 0 cm. In ultimo ho chiesto se avessero saputo dirmi cosa intendesse l’Eni quando ha affermato che le acque ad uso civile non sarebbero state contaminate. Anche in questo caso la risposta è stata poco convincente, anche perché frutto di una supposizione (“forse si riferivano alla non contaminazione di condotte idriche in cui scorrono acque ad uso civile”). Ho quindi chiesto all’assessore di valutare, con il supporto degli uffici regionali, l’impugnazione del disciplinare UNMIG in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il comma 7 dell’art.38 dello Sblocca Italia. In definitiva si può affermare, senza tema di smentita, che di certezze ce ne sono ancora troppo poche e di punti oscuri, troppi. Il M5S continuerà a vigilare ed a richiedere l’accesso agli atti necessari per verificare l’ottemperanza alle prescrizioni contenute nella delibera, specie quelle disposte nelle more del riesame dell’AIA, il cui percorso dovrebbe cominciare nei prossimi giorni. Il nostro obiettivo rimane quello di chiudere il mostro e contestualmente pianificare la transizione verso un vero modello di sviluppo sostenibile.

Gianni Perrino
Portavoce M5S Basilicata – Consiglio Regionale

 

Articolo precedenteRiavvio del COVA: criticità tutte superate?
Articolo successivoLe PDL non discusse vengano iscritte all’ordine del giorno del prossimo Consiglio Regionale.